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Comunicazione scientifica PDF Stampa E-mail
 
Qualcuno preferisce pensare che vi sia una distinzione netta. Da una parte, la scienza algida e seria, dall’altra, la frivola divulgazione; da una parte, il rigore del linguaggio specialistico, dall’altra, il pressappochismo di discorsi orecchiati alla bell’e meglio; da una parte, la compassata severità dei manuali, delle monografie di ricerca e delle riviste che selezionano gli articoli da pubblicare attraverso il ferreo meccanismo del peer review, dall’altra le chiacchiere di quotidiani, magazines, libri destinati al “grande pubblico” o, addirittura, la superficialità di altre forme di intrattenimento ancora più fatue. Una simile concezione, tuttavia, nell’accentuare differenze che innegabilmente esistono, non solo semplifica all’eccesso una realtà ben più articolata e complessa, ma occulta – o ignora – una delle caratteristiche basilari dell’impresa scientifica, che la contraddistingue in quanto tale. A chi si rivolge lo scienziato, sia un biologo o un chimico, un fisico o un matematico? A chi sottopone, per un giudizio, i propri risultati e le proprie idee? Ebbene, si deve rispondere, non esclusivamente alla ristretta cerchia dei propri colleghi, ma a tutti. Soltanto a questa condizione, infatti, il discorso scientifico può essere considerato un esempio di ciò che Immanuel Kant, nel celebre scritto Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?, definisce “il fare pubblico uso della propria ragione”. A differenza dell’uso privato della ragione, che può essere soggetto a limitazioni e coercizioni di varia natura, il pubblico uso della ragione – ammonisce il filosofo tedesco – «deve essere sempre libero, e solo esso può attuare l’illuminismo [Aufklärung, rischiaramento] tra gli uomini». Se accettiamo l’impostazione kantiana, la scienza può dunque salvaguardare la propria libertà e indipendenza – in assenza delle quali la sua stessa esistenza sarebbe messa a repentaglio – unicamente a patto di essere “pubblica”, o per meglio dire “ecumenica”, cioè rivolta a tutti. A questo punto, dovrebbe essere chiaro che, per l’uomo (o la donna) di scienza risulta essenziale, non accessorio, comunicare in maniera efficace le proprie idee e le proprie scoperte. La scienza specialistica, pura e dura, esoterica e la divulgazione in tutte le sue varie forme non sono i termini opposti di un binomio irriducibile, ma le manifestazioni estreme della variegata gamma di soluzioni attraverso le quali, da Galileo a oggi, si è cercato di venire a capo dell’ineludibile problema della comunicazione e della diffusione del sapere scientifico.

In effetti, questo problema accompagna la scienza moderna fin dalla sue origini. Galileo, come si sa, è molto attento a dare forma diversa ai suoi scritti – dal De motu alla Lettera a Cristina di Lorena, dal Sidereus Nuncius alla Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari, dal Saggiatore al Dialogo sopra i due massimi sistemi, ai Discorsi e dimostrazioni intorno a due nuove scienze – a seconda delle circostanze e degli intenti che di volta in volta si prefigge; a proposito dell’Istoria, significativamente osserva: “Io l’ho scritta vulgare, perché ho bisogno che ogni persona la possi leggere”. Le prime due pubblicazioni periodiche che potremmo denominare «riviste scientifiche» nascono entrambe nel 1665, ma sono ancora molto diverse da quelle a noi familiari: Le Journal des sçavans, guardato con estremo sospetto dai Gesuiti, contiene anche rubriche letterarie, le Philosophical Transactions riflettono il carattere ingenuamente baconiano della Royal Society di quell’epoca, i cui membri sono in gran parte aristocratici, cortigiani, uomini politici, ricchi gentlemen che si dilettano di filosofia naturale. Ancora nel 1676, tuttavia, Newton comunica a Leibniz, per il tramite di Henry Oldenburg, i risultati raggiunti nel calcolo differenziale e integrale usando un anagramma che non sembra concepito per agevolare la comprensione: «6a cc d æ 13e ff 7i 3l 9n 4o 4q rr 4s 9t 12 v x» (la cui soluzione è: «Data æquatione quotcunque fluentes quantitates involvente, invenire fluxiones et vice versa»).

Nei secoli successivi, anche quando ormai gli scienziati ricorrono a forme di comunicazione sempre più simili a quelle che conosciamo oggi (brevi saggi in pubblicazioni periodiche a diffusione europea, opuscoli, trattati, ecc.), la diffusione delle loro idee segue canali diversi, trovando espressione in opere di vario genere, che sarebbe semplicistico etichettare come «divulgative». Nel Settecento, il progressivo affermarsi della concezione copernicana e del newtonianesimo è indissolubilmente legato al duraturo successo degli Entretiens sur la pluralité des mondes (1686) di Bernard Le Bovier de Fontenelle, alle scintillanti Lettres philosophiques (1734) di Voltaire, alle salottiere conversazioni del Neutonianesimo per le dame (1737) di Francesco Algarotti, agli artcioli di Jean Le Rond d’Alembert nei volumi dell’Encyclopédie, o a quel capolavoro misconosciuto che sono le Lettres à une Princesse d’Allemagne sur divers sujiets de physique et de philosophie (1768-1772) del matematico svizzero Leonhard Euler (Eulero). La fede ottocentesca nella scienza e nelle sue «magnifiche sorti e progressive» si rispecchia, forse più fedelmente che nei trattati dei filosofi positivisti, nelle pagine di Louis Figuier o di Camille Flammarion e trova la sua apoteosi nei romanzi di Jules Verne. Ad un altro livello, gli scritti non specialistici di scienziati quali William Herschel, Bernhard Riemann, Hermann von Helmholtz, William Kingdon Clifford, Ernst Mach, Henri Poincaré rappresentano un ricchissimo serbatoio di idee per le generazioni successive, preparando il terreno a quelle nuove concezioni dell’universo fisico che saranno definite dalla relatività einsteiniana e dalla meccanica quantistica. Nel caso dell’aspro dibattito sull’evoluzionismo, alle opere di Darwin si affiancano, con un impatto non minore, quelle di Henry Huxley, che difende a spada tratta le tesi sulla prossimità filogeneteica dell’uomo e della scimmia.

Per quanto riguarda il Novecento sarà sufficiente, rinunciando ad approfondire un discorso che altrimenti rischierebbe di diventare troppo ampio, sottolineare due aspetti degni di nota. In primo luogo, appare significativo il fatto che non pochi tra i migliori scienziati del secolo scorso abbiano deciso di investire parte del loro tempo e del loro ingegno non per produrre articoli specialistici o trattati, ma opere rivolte a un più vasto pubbblico. Un semplice elenco di nomi, per quanto lacunoso, può forse servire a dare la misura dell’estensione del fenomeno: Einstein (autore di un aureo volumetto intitolato – forse con eccessivo ottimismo pedagogico – Relatività: esposizione divulgativa), Werner Heisenberg, Erwin Schrödinger, George Gamow, Jacques Monod, Peter Medawar, James Watson, Max Delbrück, Richard Feynman, Freeman Dyson, Steven Weinberg, François Jacob, Stephen Hawking, Stephen Jay Gould, Richard Dawkins. In secondo luogo, le nuove idee scientifiche e le grandi scoperte trovano eco più vasta – talvolta distorta, d’accordo, talvolta trasfigurata – nelle opere di romanzieri, scrittori di teatro, e poeti, di artisti e musicisti, e anche nelle forme più tipiche di quella che viene detta cultura di largo consumo: film, trasmissioni radiofoniche e televisive.

Il punto dovrebbe essere chiaro. Non sembra corretto, né sul piano storico, né su quello metodologico, separare, se non artificialmente, una scienza pura e dura, fatta di formule, di simboli, di termini tecnici, dai discorsi, fatti di parole del linguaggio comune, che intorno a questa scienza si intessono. La divulgazione – intesa, com’è ovvio nella sua accezione più alta e più nobile, non come volgarizzazione imparaticcia – fa parte integrante di un processo di libera circolazione delle idee senza il quale la scienza non può ambire a caratterizzarsi come sapere pubblico e controllabile. E non soltanto questo: vi sono altri pericoli da scongiurare. Occorre restituire all’impresa scientifica una prospettiva critica e problematica in grado di smontare le impalcature teoriche per mettere a nudo i significati occultati dal formalismo e di smascherare le assunzioni implicite e le petizioni di principio. Occorre sforzarsi di superare l’esasperata parcellizzazione della ricerca scientifica dovuta all’eccesso di specialismo, rinsaldando al contempo i legami con gli altri campi del sapere, in particolare con le discipline umanistiche, economiche e sociali. Occorre sottrarre la scienza al rischio di diventare un «sapere senza memoria» (per usare la pregnante espressione di Jean-Marc Lévy-Leblond), e coltivare dunque una visione storico-evolutiva che evidenzi quella dinamica tra tradizione e innovazione così acutamente analizzata da Thomas Kuhn nei saggi, per esempio, de La tensione essenziale. Per tutto questo appare necessario sviluppare la comunicazione della scienza in tutte le sue diverse forme – di esposizione, riflessione metodologica, ricostruzione storica, disanima critica, intrattenimento, libera variazione sul tema –, riconoscendole appieno la sua importanza.

Vorrei spendere, in conclusione, alcune parole a proposito della matematica per mettere in luce un fenomeno – un’inversione di tendenza, si potrrebbe dire – che si è prodotto abbastanza di recente. Negli ultimi due o tre lustri la percezione di questa disciplina da parte del grande pubblico ha subito un radicale cambiamento: da argomento ostico, considerato con reverenziale timore o con sussiegosa indifferenza, la matematica è ormai diventata la protagonista di eventi mediatici di grande richiamo. Ne fanno testimonianza romanzi di successo (per esempio, Il mago dei numeri di H. M. Enzensberger, Il teorema del pappagallo di Denis Guedj o Zio Petros e la congettura di Goldbach di Apostolos Doxiadis), bestseller della divulgazione (per esempio, i volumi di Ian Stewart, di Piergiorgio Odifreddi o di Marcus du Sautoy), film di cassetta (per esempio, A beautiful mind, che narra il dramma di John Nash o Morte di un matematico napoletano, che rievoca la figura di Renato Caccioppoli), spettacoli teatrali acclamati (per esempio, Infinities, allestito al Piccolo di Milano da Ronconi su testo di J. Barrow). A riprova di questo generale interesse per la matematica si potrebbe ancora citare il buon esito di convegni che mirano a mostrarne il lato umanistico e artistico, quali gli annuali incontri «Matematica e Cultura», organizzati a Venezia a partire dal 1997 da Michele Emmer, la fortuna di pubblico delle conferenze e delle mostre a carattere matematico all’interno del «Festival della scienza» di Genova, e l’enorme successo del «Festival della matematica» svoltosi a Roma nel marzo 2007, che ha visto la partecipazione di 50.000 persone che facevano ressa per acclamare come divi dello spettacolo matematici quali John Nash, Andrew Wiles, Michael Atiyah o Alain Connes.

Gian-Carlo Rota, in uno dei testi che compongono il raffinato mosaico dei suoi Indiscrete thoughts, presenta, tra il serio e il faceto, dieci avvertimenti che ogni matematico dovrebbe sempre tenere a mente. Uno di questi è: «you are more likely to be remembered by your expository work» («è più probabile che sarai ricordato per il tuo lavoro di carattere espositivo»). Sarei tentato di trarre da queste parole una drastica e più generale conclusione: comunicare in modo efficace la matematica è essenziale alla sua sopravvivenza.