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Francesco Tonin PDF Stampa E-mail
La mia scelta di carriera è stata fatta inizialmente, come per molti, alla fine del liceo. Avevo fatto il liceo scientifico perché mio padre aveva pensato che, visti i bei voti a scuola, avrei un giorno potuto fare l'università; non c'era molto di più nei nostri piani all'epoca. Una volta arrivata la fine del liceo, mi ero chiesto, e mio padre mi aveva chiesto, cosa volessi fare; avevo allora pensato che fosse una buona idea scegliere una materia tra quelle che mi piacevano di più. Non so perché, ma non era stata una scelta di carriera: per qualche ragione strana la questione era stata solo che cosa mi piacesse di più fare, senza nessuna considerazione pratica.
Ma insomma, alla fine eccomi lì iscritto a matematica. Nel subconscio, lo so, avevo il sogno di diventare uno scienziato, ma non avevo nessuna idea concreta di come arrivarci, né avevo il desiderio di chiederlo a nessuno.
Alla fine del corso di laurea, concluso con buoni voti (la media più alta della mia classe), non era stato difficile trovare un buon relatore di tesi che mi volesse tenere sotto le sue ali e aiutare a raggiungere un posto all'Università: un posto di ricercatore.
Per fare una carriera da vero matematico, da vero scienziato, le tappe sono molte, ma una su tutte domina la vita dello studente: diventare ricercatore. Essere ricercatore significa avere un salario per tutta la vita ed essere accettato nella comunità scientifica. Prima di vincere il concorso di ricercatore si è come dei fantasmi, come dei bambini che giocano a fare ricerca e rischiano un brusco risveglio. L'incubo è quello di aver tentato per anni una carriera che alla fine non si realizza, e ho visto molti miei amici passare per tutte le tappe preliminari (dottorato, contratti di ricerca, pubblicazioni, conferenze all'estero) e mai riuscire a vincere uno di questi benedetti concorsi. Alla fine hanno abbandonato, sconfitti dai concorsi, dal ridicolo di continuare a fallire per anni e anni, dall'umiliazione di non essere parte del club dei veri matematici.
Questa è la vera sfida della ricerca: che è facile non riuscirci.
Non dico che sia stato facile, ma insomma alla fine, giusto prima dei trent'anni, ho avuto il mio posto da ricercatore. Tra le cose difficili ci sono tutti i litigi col mio relatore di tesi e col mio direttore di dottorato, e tutte le incertezze legate a tirare avanti con assegni di ricerca che durano tre mesi e poi bisogna ricominciare da capo a trovare dei fondi.
Ma alla fine ne vale la pena, mille volte. Un posto all'Università rappresenta libertà finanziaria di continuare a giocare coi numeri, il riconoscimento ufficiale di tutti i teoremi scoperti e degli articoli pubblicati. Rappresenta l'ammissione ad un club prestigioso. È uno dei mestieri più belli del mondo. Da un punto di vista intellettuale non esiste niente di neppure lontanamente paragonabile: la difficoltà di fare ricerca matematica è stupefacente.
Una volta diventato ricercatore, qualcosa in me si è spezzato: la coscienza che il mondo è limitato alla matematica, o meglio la coscienza che io sono limitato a fare matematica, e che non posso avere successo che facendo matematica. E bisogna anche dire che la carriera, una volta diventato ricercatore, è un pò lunghetta: il secondo passo (professore associato) può avvenire anche cinque anni dopo. Il passo finale (professore ordinario) magari dieci anni dopo. Eppoi quello è l'ultimo passo. È finita.
Mi sono spesso reso conto che mi annoio molto facilmente, e avere di fronte a me trent'anni di carriera come matematico con solo due promozioni a punteggiare una sfilza di congressi internazionali e pubblicazioni con teoremi che sono uno la generalizzazione del precedente, ebbene, no, non era abbastanza.

Ecco quindi l'idea di rimettere tutto in gioco, di spendere in un corso MBA in America tutti i risparmi di dieci anni di ricerca matematica. L'idea di dare le dimissioni e di atterrare a New York con due valigie e nessun numero telefonico in tasca, arrivare in una città di dieci milioni di persone senza conoscerne nemmeno una. Un'idea geniale.
Una volta deciso di tentare, il resto è stato facile, perché infatti tutto ha più o meno funzionato: l'ammissione ad una delle migliori scuole di business degli Stati Uniti, una sfilza di offerte di lavoro, una facilità di adattarsi che mi ha permesso di sopravvivere ogni avversità nel mondo della finanza: dalla recessione del 2001, alle beghe di potere che ogni ufficio offre, a un tipo di lavoro che viene fatto da non più di cinquanta persone in tutta New York, e forse centocinquanta in tutto il mondo. E credo che in realtà siano di meno.
Ma veniamo ai fatti: sono riuscito a entrare alla Columbia University a New York per un Master in Business Administration, e lì ho capito che quello che mi piaceva di più era la finanza. Una volta trovato lavoro in una banca d'affari Americana (Morgan Stanley) ho piano piano aggiustato la mira arrivando alla fine, dopo altre tre banche nelle quali ho lavorato (Deutsche Bank, Credit Suisse, Citibank), al mio lavoro ideale: strutturatore di operazioni su valute.
Cosa significa? Molto semplice: mi occupo di tutte le operazioni finanziarie complicate su valute. Le propongo, faccio il prezzo, le commento, le presento, rispondo alle domande che fanno i clienti, le studio e me ne invento di nuove. Parlo coi venditori, coi clienti, coi traders.
Qual è la differenza con il mondo della ricerca? Non è di certo che i matematici sono in media più bravi in matematica. E non è neppure vero che nel mondo degli affari le persone sono più interessanti. Ma in ricerca l’unica cosa che conta è il talento matematico. Ce l'hai o non ce l'hai. E lo si vede in due minuti. Se ce l'hai, ce l'hai dalla nascita, e se non ce l'hai nessuno te lo può dare. In quel senso la matematica è spietata. Nel mondo degli affari è molto più difficile definire il successo. Quello che è certo è che non dipende da una cosa sola.
Adesso ho trovato il mio lavoro ideale e la storia finisce qui? Non lo so: come ho detto, mi annoio molto facilmente.
 
(Scritta nel 2007)