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Indra Macrì PDF Stampa E-mail

ImageMamma ho deciso: “mi iscrivo ad Architettura, da grande farò l’architetto!”. "Indra, bella di mamma", era questo l’intercalare di mamma quando mi voleva far ragionare - "io e papà non siamo ricchi, non ti possiamo comprare uno studio di architettura. Devi scegliere un'altra facoltà, perché dal marito un giorno si potrà anche divorziare, ma dalla laurea è molto più difficile: gli studi che hai fatto quelli ti restano".
Pensa e ripensa, avevo finalmente trovato la facoltà giusta: Ingegneria. Ecco l’idea geniale, ragionavo fra me, posizione sicura, nessun problema per l'impiego, laurea scientifica, quindi certamente interessante per me, che avevo frequentato il classico con scarsa convinzione. Mamma non mi poteva contraddire. E non lo fece, almeno non palesemente. Cominciai a frequentare i corsi di ingegneria aeronautica, ma solo quelli che non avrei potuto seguire a Matematica e cioè chimica e disegno. All’epoca mia, Matematica ed Ingegneria avevano per il biennio la maggioranza delle materie in comune. Mentre gli ingegneri accettavano i matematici pentiti senza colpo ferire, i matematici, puristi inguaribili, non convalidavano gli esami sostenuti ad Ingegneria senza un ulteriore esame integrativo. Insomma mi dissi: chi me lo fa fare? Tanto vale che, nell'incertezza generale, do gli esami matematici a Matematica, così non devo ripeterli se decido di cambiare facoltà e seguo ad Ingegneria i corsi di quelle materie che a Matematica non troverei.

Così tutti i giorni mi imbarcavo per seguire i corsi di chimica e disegno. Da casa mia era quasi un viaggio: un'ora fra metropolitana ed autobus per arrivare in quell'aula enorme. I posti migliori, quelli del primo banco, erano tutti presi dalla prima ora. Mi avevano detto addirittura che bisognava arrivare anche un’ora prima dell’inizio della lezione per garantirsi il posto in prima fila. Qualcuno sembra si portasse una sedia pieghevole da casa….insomma una situazione difficile. Io, una delle poche ragazze dell’aula, trovavo un posticino nelle ultime file. Avevo, da buona napoletana, fatto molta amicizia con i miei compagni di banco. Dei bravissimi ragazzi, ma che di Ingegneria non ne volevano proprio che sapere. L'unica cosa che li accomunava con la facoltà cui si erano iscritti era la professionalità con la quale costruivano aeroplani. Perfetti. Per fortuna. Perché sulla punta dell’aeroplano di carta generalmente mettevano un chewing gum (già masticato). L’obiettivo era raggiungere il posto più lontano del soffitto, quasi all’altezza della cattedra. Così partiva la gara e vinceva chi riusciva ad attaccare l’aeroplano più lontano.

 Quando tornavo a casa della lezione all'ultimo banco mi restava ben poco. E credo che mia madre tutto sommato era soddisfatta. Stava raggiungendo il suo obiettivo: che io maturassi la sua idea, la Matematica! Ce la metteva tutta. Mi portò all’Università con lei per farmi conoscere un suo collega. Il corso di laurea in  Matematica della Federico II nel 1990 non si era ancora trasferito nella sede di Monte Sant'Angelo, era ancora a via Mezzocannone. Lì, soprattutto, mi aveva colpito l’ambiente, le aule, i corridoi, tutto mi sembrava sereno, tranquillo. Nulla a che vedere con la confusione degli ingegneri. E devo dire che questa caratteristica in qualche modo si riflette anche nell’impostazione di studio delle due discipline. Per fare Matematica, seria, intendo ad un certo livello, bisogna essere calmi nell’animo e liberi da pensieri, in modo tale che la mente possa ascoltare l’ispirazione, possa raggiungere la soluzione che è lì. Chi conosce il piacere della Matematica sa che poche cose possono appagarti nella vita come risolvere “il problema”. E se poi si raggiungono dei livelli discreti, si riesce anche a farlo con stile. Essere un matematico di stile, trovare una soluzione elegante vuol dire descrivere strade nuove inesplorate e che sono di una semplicità quasi “infantile”. Puoi perdere la testa, arrovellarti tutto il tempo su una soluzione e non dormirci la notte. Ma quando poi l’ispirazione sfiora le corde del tuo pensiero e metti a fuoco tutte le idee in un ordine armonioso, allora ti sembra tutto divinamente semplice! Ed una volta riletta la soluzione appare ovvia. Ci sarebbe potuto arrivare chiunque. E’ questa caratteristica che rende la Matematica una disciplina “democratica”. Con la sua semplicità parla alla mente di tutti.

Arriva novembre e partono i corsi di Matematica. Comincio a studiare le materie che diventano le mie compagne per tutto il corso di studi: analisi, algebra, geometria. Fisica sono costretta ad abbandonarla, perché dopo la prima settimana l’uso di strumenti matematici a me sconosciuti la rende sempre più ostica. Ma non ci sono dubbi: è la mia facoltà, ingegneria è già un lontano ricordo. I colleghi che avevano fatto il liceo scientifico mi chiedono se riesco a capire qualcosa. Ma di fatto in algebra e geometria eravamo pari; essi potevano sfoggiare la loro superiorità solo in analisi matematica e non perdevano occasione per farlo. Io silenziosamente facevo i miei esercizi, riflettendo, badando alla precisione, alla meticolosità. Con me portavo un’unica esperienza: le disequazioni. In quelle ero imbattibile. Non lo sapevo ancora, ma le disequazioni erano uno strumento essenziale nello studio di funzione, il cuore del programma. A giugno portai a casa il primo trenta. Avevo studiato con entusiasmo anche algebra. A luglio ci provai. Ricordo ancora le parole dell’assistente di algebra aprendo il libretto."Lei è brava, non deve prendere un voto basso: ritorni ad ottobre".
Con amarezza tornai a casa. Trascorsi tutte le vacanze con un solo esame sul libretto. Non ero contenta di me. Studiai il programma di algebra alla perfezione. Ad ottobre l’esame me lo fece tutta la commissione, perché avevo chiesto la lode. A questo punto non mi accontentavo di un voto qualunque. Da quel momento il corso di laurea fu scandito da esami preparati tutti con livello. Ogni esame arrivava sul libretto solo se era stato digerito fino in fondo. Come disse il mio professore di Analisi in Matematica è preferibile impiegare un po’ più di tempo, pur di raggiungere una preparazione completa.

Mi laureai il 14 luglio del 1995. Dopo poco più di una settimana partiva il corso estivo della scuola interuniversitaria a Perugia. Lo frequentai fra il caldo ed il desiderio di distrarmi. Rientrai a Napoli che non ne potevo più dello studio. Avevo capito che la ricerca matematica non era per me: non avevo né la pazienza per perseverare nell’obiettivo, né la genialità per bruciare le tappe. In più ero rimasta folgorata dal mondo aziendale. Mentre ero all’Università, l’IBM aveva invitato gli studenti italiani migliori di tutte le facoltà scientifiche ad un seminario di studi a Spoleto. Era il mondo che faceva per me: grandi progetti, esperienze con le persone e non solo con la penna, la carta e la propria mente, in aggiunta viaggi, un ambiente dinamico ed affascinante. Oltre all’intelligenza pura cercavo un lavoro che mi consentisse di utilizzare quella che è stata definita da Goleman intelligenza emotiva. Non conoscevo nessuno, ma avevo un nome ed un numero di telefono. Si trattava del responsabile della sede di Napoli dell’IBM. Fissai un appuntamento. Gli dissi che mi ero appena laureata e che ero interessata ad entrare in IBM. Non dimenticherò la sua risposta, perché mi disse: “Lei si è laureata troppo tardi. Abbiamo appena finito le selezioni. Non ci sono possibilità”.   Avevo le orecchie che mi fumavano ancora per la tesi, la tesina, ed il corso di Perugia. Il giorno della laurea non avevo 22 anni e questo mi dice che mi sono laureata troppo tardi? Ma è il colmo!

La vita insegna che le cose possono cambiare da un momento all’altro. A gennaio 1996 parto per il corso base di Novedrate, il corso che all’epoca organizzavano per tutti i nuovi dipendenti IBM. Si era aperto uno spiraglio e selezionarono anche me. In IBM ho imparato il mio mestiere di informatica: dalla programmazione ad oggetti, al lavoro di gruppo. All’Università avevo appreso i concetti base, ma è stato in azienda che ho acquisito gli strumenti di lavoro, di cui mi sono poi avvalsa nel seguito. Dopo un anno e mezzo partecipai ad un concorso bandito dal Ministero della Giustizia. Andai a questo concorso senza interesse, per prova. Dal 30 dicembre 1997 ero un’informatica della Corte Suprema di Cassazione. Lavoravo per la Pubblica Amministrazione con interesse ed orgoglio.  Essere il “cliente” invece che il “fornitore” mi divertiva e soprattutto mi caricava di responsabilità. Mi dovevo occupare del contratto che regolava i collegamenti in rete di tutti gli uffici giudiziari.

La rete della Giustizia era complessa ed ancora più complessi erano gli uffici giudiziari ed i rapporti con i diversi interlocutori: cancellerie e giudici. Stava consolidandosi la struttura informatica della Giustizia. Avevo rapporti con tutti i colleghi d’Italia che gestivano la rete dei diversi distretti e con il fornitore, allora Telecom Italia, che erogava il servizio. Il mio orario di lavoro era ufficialmente cambiato: 36 ore distribuite in 5 giorni settimanali con due rientri pomeridiani. Di fatto tornavo a casa e studiavo le reti. Non le conoscevo abbastanza approfonditamente per far fronte alle indicazioni del fornitore che, abituato fino a quel momento ad un cliente meno presente, faceva  ciò che era più semplice, che non sempre coincideva con il bene dell’Amministrazione. Con grinta e caparbia conquistai la stima del fornitore e dei colleghi ingegneri specializzati in telecomunicazioni.

Dopo aver lavorato per la Segreteria del Ministro della Giustizia e per il Consiglio Superiore della Magistratura, dove ero responsabile della rete e della sicurezza, vinsi un altro concorso presso il Centro Tecnico della Rete Unitaria. Si trattava di un organismo dell’Autorità per l’Informatica nella Pubblica Amministrazione (AIPA) che si occupava della rete di tutte le pubbliche amministrazioni. Il mio compito era quello di controllare i livelli di servizio, cioè le modalità di calcolo ed i risultati della qualità del servizio di rete erogato a tutte le pubbliche amministrazioni. Ancora una volta gli strumenti matematici di cui mi avvalevo erano per lo più quelli basilari, ma ciò che, credo, abbia fatto la differenza nel mio lavoro è stato l’approccio, il metodo matematico. Abituata alla dimostrazioni, sono sempre stata molto scrupolosa nella verifica dei risultati, con scarsa propensione ad accettare supinamente i dati forniti dai colleghi ingegneri. Penso che sia stata questa mia attenzione, acquisita con l’amore per la Matematica, che mi ha consentito di essere apprezzata sul lavoro.

Oggi lavoro presso il CNIPA, il Centro Nazionale per l’Informatica nella Pubblica amministrazione, che nasce dalla fusione dei due enti prima citati: il Centro Tecnico per la Rete Unitaria nella Pubblica Amministrazione e l’AIPA. Il CNIPA, ente che opera presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, governato da un organo collegiale, costituito dal presidente e da quattro componenti, supporta le Pubbliche Amministrazioni nelle scelte informatiche. Al CNIPA, fra le altre cose, ho seguito i pareri sulle reti. I pareri costituiscono una  delle attività istituzionali previste dal decreto legislativo n. 39 del 1993. Quando un’Amministrazione centrale dello Stato italiano deve acquisire beni o servizi informatici di una certa entità economica richiede un preventivo parere al CNIPA. Il CNIPA elabora tale parere, pronunciandosi, fra l’altro, sulla congruità tecnico ed economica dell’iniziativa.  Dopo le reti mi sono occupata dei sistemi a radiofrequenza (RFId) che possono innovare i processi delle pubbliche amministrazioni, portando l’esperienza italiana nel convegno europeo dello scorso marzo 2007. Sono attualmente l’assistente di un componente del collegio, la dott.ssa Floretta Rolleri e seguo, quindi, tutte le attività istituzionali del CNIPA.

Durante il mio lavoro sono spesso a contatto con gli ingegneri, in riunioni, telefonate, confronti, talvolta accesi. Spesso pensano di me che sia un ingegnere. Mi diverte sempre precisare che sono una “matematica”, soprattutto per lo stupore che suscita la mia chiosa. Una volta mi è addirittura capitato che l’interlocutore fosse convinto che avessi conseguito la laurea in legge, forse per la precisione con la quale riportavo i fatti.
Comunque dalla mia esperienza ho appurato che conta molto la preparazione che si acquisisce continuando a studiare ed a lavorare. La differenza sul lavoro la fa il metodo ed in questo la facoltà di Matematica è stata per me altamente formativa.

Mi sono chiesta spesso se l’aver studiato Matematica piuttosto che ingegneria o informatica mi abbia limitato nella mia carriera lavorativa. Per adesso la risposta è negativa, in quanto ho avuto accesso a tutte le posizioni che mi interessavano. La maggioranza dei posti tecnici nelle Pubbliche Amministrazioni non sono riservati solo agli ingegneri, ma sono accessibili anche ai laureati in Matematica, Fisica, Informatica. Tuttavia credo che nei requisiti di selezione le aziende siano più aperte di alcune Pubbliche Amministrazioni, in quanto nella ricerca di neolaureati più che alla formazione tecnica di provenienza sono interessate alla formazione di base, sulla quale preferiscono aggiungere la propria preparazione aziendale. Per le figure professionali di esperienza, invece, le aziende valutano i risultati conseguiti e non più la laurea di provenienza.
In generale auspico che la Pubblica Amministrazione italiana, oggi molto orientata alla “giuricrazia”, si apra verso una classe dirigente tecnica. Pur prevedendo le norme italiane per ogni amministrazione pubblica una struttura informatica che governi l’innovazione tecnologica oltre che organizzativa, di fatto i dirigenti tecnici sono molto pochi. Anche in queste strutture vi sono ancora per lo più dirigenti con formazione economico/giuridica.

Per concludere dalla Matematica non ho divorziato, la porto sempre nel cuore. Nel frattempo, però, ho sposato un ingegnere, ma, in questo caso, era d’accordo anche mia mamma!